Inviato il 21/10/2005 da Mauro Gelsomini

Report di Marcello Catozzi

 

Torino – Corner House: 16 settembre 2005

Le recenti notizie circolate fra gli appassionati e gli addetti ai lavori, relative all’inatteso “split” verificatosi all’interno dei 60/70, vale a dire una delle “tribute – band” più storiche e gloriose, mi hanno sinceramente inquietato ed è per questo motivo – oltre all’indubbio piacere di riascoltare dei musicisti di assoluto valore – che decido di farmi un viaggio alla volta di Torino per assistere, dopo un po’ di tempo, al concerto della famosa 60/70 Rock Band, leggermente rimaneggiata rispetto alla formazione originaria.
Arrivo al Corner House in tempo per gustarmi una classica accoppiata pizza & birra e giunge il momento di lasciare la parola al Rock, quello vero, sano e genuino. I ragazzi vanno a cambiarsi e, a questo punto, mi chiedo se Roberto (il bassista) sfoggerà anche stasera una delle sue classiche “mise” anni 70 alle quali è tanto affezionato!
Nel giro di pochi minuti il quintetto prende possesso del palco. La line-up è la seguente:
• Piero Leporale: voce
• Fabrizio Fratucelli: chitarra
• Roberto Cassetta: basso
• Mirko Melis: tastiere
• Renzo Coniglio: batteria
Do uno sguardo panoramico e constato che il locale è gremitissimo: l’attesa, in effetti, era davvero grande, considerati gli eventi extra musicali che hanno preceduto l’evento; del resto, nei giorni scorsi sui vari forum di Deep Purple – fans e altri siti specializzati si sono sprecati gli interventi, i comunicati, i commenti e le diverse smentite, ufficiali o meno, sulla triste “querelle” riguardante i 60/70. Ma confesso che – dopo aver io stesso temuto per la fine di questo blasonato gruppo, che tanto ha dato in più di vent’anni di carriera – una sottile e rassicurante vena di soddisfazione mi pervade, osservando Fabrizio, Piero e Roberto “on stage”, nonostante gli accennati rivolgimenti. Here we go, si comincia! L’inconfondibile voce di Piero annuncia la prima di una lunga serie di canzoni che ci faranno sicuramente sognare, come sempre.
Con Highway Star si entra subito nell’atmosfera giusta. Il suono è fedelissimo all’originale ed il ritmo impresso da Renzo trascina i cinque in un’esecuzione che definirei perfetta. L’ugola di Piero si scalda quanto basta per affrontare la prossima Might Just Take Your Life, vivace, ritmata e smaccatamente “purpleiana” nella sua essenza e quindi nel sound, che permette al timido Mirko (non va dimenticato che si tratta della prima volta in cui si cimenta nel “Deep Purple tribute”) di mettersi in luce con le sue tastiere ben impostate, direi quasi “heavy” nella circostanza. La gente applaude calorosamente, dimostrando di aver gradito l’approccio. Il calore è al massimo, in tutti i sensi, sia come temperatura microclimatica che come partecipazione. Sul mega schermo e sui monitor disseminati intorno alla sala scorrono vecchie immagini dei Deep Purple e si alternano scene di un famoso concerto del 1972, in bianco e nero, con altre più recenti, a colori, a testimonianza del “sacro fuoco” di un mito che non accenna a spegnersi nonostante il trascorrere degli anni. Gli occhi si posano, a volte, su quelle immagini che costituiscono un magico trait d’union tra passato e presente: le dita di Fratucelli scorrono sulla tastiera proprio come i polpastrelli di Blackmore e ci regalano emozioni non meno intense di quelle provate alcuni lustri or sono.
Gli stacchi iniziali preannunciano ora la notissima Strange Kind Of Woman, in cui il quintetto mette in mostra un affiatamento a dir poco stupendo. Il famosissimo duetto voce – chitarra ci riporta ai tempi di “Made in Japan” ed è in questi momenti che sentiamo il piacere di essere saliti sull’ascensore del tempo per approdare in quel glorioso decennio… Nella chiusura il volume degli strumenti gareggia con l’intensità degli applausi e delle urla di approvazione.
L’ascensore si ferma al piano dell’era Coverdale/Hughes, con la tiratissima Stormbringer, nella quale le corde vocali di Piero danno un saggio della loro estensione. Lo stesso discorso vale per Lady Double Dealer, sparata a velocità supersonica. Con la rabbia e la grinta che ci mettono, sembra quasi che questi 60/70 ci tengano a ribadire che i veri Deep Purple sono loro!
A proposito di “magic moments”, Child In Time suggella una performance di grandissimo livello: i nostri sguardi si posano di tanto in tanto, con un velo di nostalgia, sugli schermi che proiettano un giovane Ian Gillan ed a maggior ragione ci godiamo la fantastica voce di Piero che si sposa alla perfezione con gli struggenti assoli di Fabrizio!
Quest’atmosfera di magia non ci abbandona, ma anzi ci pervade interamente, con le note di Perfect Strangers, splendida canzone con improvvisi cambi di ritmo e impennate che esaltano le qualità dei musicisti sul palco. Il pubblico è veramente preso dall’entusiasmo; un corpulento fan con canottiera mimetica si agita in prima fila, in piena “trance” da concerto e si vede proprio che fa una fatica bestiale a non salire sul palco per abbracciarsi chitarrista e drummer. Per loro fortuna, Dr. Jeckyll prevale su Mr. Hyde: l’energumeno resta al suo posto e le sue ascelle in ebollizione rimangono a distanza di sicurezza!
Con Mistreated, caratterizzata da una piacevole “intro” fratucelliana impregnata di sano blues, sono io ad andare in “trance” e mi godo in pieno questa immortale e meravigliosa canzone che ogni volta riesce a scuotermi lo stomaco (altro che pranayama!), in particolare il lungo assolo centrale di chitarra, che mi manda letteralmente in estasi; alla fine mi accorgo però di non essere il solo a sentirmi così gratificato, giacché tutti quanti esplodiamo in un’ovazione che pare non avere fine.
Piero ci invita allora ad intonare il coro di Black Night, e così cantiamo tutti insieme a lui ed accompagniamo la band nell’esecuzione di quest’altra pietra miliare della storia del Rock. La partecipazione è totale.
La scelta della set-list si rivela molto oculata, visto che ora è la volta della commovente When A Blind Man Cries: la voce di Piero si intreccia con le corde della Fender in un gradevole connubio di melodia e potenza, per la gioia di tutti i presenti.
Anche la successiva Space Trucking evidenzia un ottimo “gioco di squadra”, ben finalizzato dagli acuti del “bomber” Piero Leporale, che pare davvero inesauribile. Smoke On The Water costituisce la ciliegina sulla torta finale e consente al pubblico di partecipare al coro, urlando a squarciagola il ritornello. A questo punto quelli delle prime file (compreso l’uomo dalle ascelle di fuoco) perdono quei “freni inibitori” che hanno finora impedito loro di saltare sul palco e si lanciano, finalmente, ad abbracciare Fabrizio, Piero e Renzo (peraltro protagonista di un breve ma piacevole drum – solo). Il resto della gente non si accontenta e pretende almeno due “bis”. Ed eccoci subito premiati, con Difficult To Cure, vale a dire la famosa “9a Sinfonia” di Ludwig van Beethoven, che Ritchie Blackmore ha sapientemente adattato con geniale originalità alle corde della sua straordinaria sei corde. Fabrizio si trova perfettamente a suo agio con questo pezzo classico tradotto in versione rock e le falangi della sua mano sinistra scorrono su e giù per la tastiera con eccezionale maestria. A seguire: l’indimenticabile Burn, trascinante ed esplosiva, che chiude nel modo migliore questa serata. O almeno, così dovrebbe essere, perché - a quanto pare - il pubblico non se ne vuole andare e costringe praticamente la band a restare sul palco. C’e qualcuno che, addirittura a mani giunte, prega Fabrizio di rimettersi la tracolla. E così, rieccoli tutti e cinque pronti a regalarci un altro brano: Highway Star, con il quale si era aperto lo show, diventa il fuoco d’artificio finale, per il piacere di tutti noi insaziabili assatanati di musica. Direi che, questa sera, dobbiamo senza dubbio ritenerci più che soddisfatti, visto il livello della performance che hanno messo in pista i ragazzi.
La prima considerazione che mi viene spontanea, su questa serata, riguarda l’atteggiamento dei musicisti sul palco. Innumerevoli sono le occasioni in cui ho presenziato ai loro concerti, ma stavolta li ho trovati particolarmente tonici, carichi e grintosi. Fabrizio era letteralmente scatenato, come se volesse affettare qualcuno con le note della sua Fender!
Roberto Cassetta (che fra l’altro è reduce da un tour in Giappone con l’altra sua band, “Arti e Mestieri”) è apparso in forma smagliante nel suo originalissimo look “rétro”, sempre preciso e affidabile come un orologio svizzero, ovviamente “anni 70”, vista la sua devozione a quell’epoca storica.
Sul batterista ero piuttosto curioso, viste le famose vicende che hanno portato allo “split” ed il poco tempo a disposizione per le prove; tuttavia devo riconoscere che Renzo si è dimostrato, sicuramente, all’altezza dell’incarico che gli era stato affidato all’ultimo momento. Il suo stile è composto, ma, pur non concedendo nulla allo spettacolo, come si suol dire, il nostro drummer dà sostanza al lavoro del gruppo, con un timing robusto e deciso, senza mai eccedere in virtuosismi; per fare una similitudine sportiva, mi ricorda uno di quei mediani tosti e rocciosi, che sorreggono il gioco di centrocampo per tutti i 90 minuti e, senza funambolismi, fanno giocate semplici ma efficaci. A questo punto, visto che spesso sorgono spontanei i paragoni, qualcuno si chiederà cosa sia cambiato rispetto a prima: bene, mi pare di poter affermare tranquillamente che l’economia della band non abbia risentito minimamente del cambio di drummer, anzi. La base ritmica si presenta bella tosta, robusta e tirata al punto giusto e, in particolare, la timbrica della Ludwig di Renzo risulta apprezzabilissima e si sposa alla perfezione con il contesto generale del sound.
Per quanto riguarda il tastierista, anche Mirko ha avuto pochissimo tempo a disposizione per prepararsi all’impegno; tuttavia il giovane emulo di Jon Lord fornisce il suo onesto contributo e riesce anche a “metterci del suo”, specie in Space Trucking e in Difficult To Cure, con la scelta di registri molto “hard” e azzeccati.
Per quel che concerne Piero, direi che ancora una volta ha confermato le sue straordinarie doti. In Child In Time è semplicemente stupendo, da pelle d’oca; le sue corde vocali riescono a raggiungere altezze proibite ai comuni mortali (tra i quali va purtroppo annoverato, ormai, anche l’attuale Ian Gillan, considerato che egli stesso non osa avventurarsi più, da anni, in certi pezzi così impegnativi e rischiosi). Con Stormbringer la sua voce ti entra nello stomaco ed evoca il migliore Glenn Hughes. Con Mistreated (una delle mie preferite, lo confesso, sia nella versione di Coverdale sia di Hughes sia di Dio) mi riporta alla mente – in alcuni momenti, come durante l’intonazione del finale: “I’ve been losing my mind” – la più grande voce della storia, ovvero l’inimitabile ed inarrivabile Ronnie James Dio. Ad un certo punto, poi, Piero si lancia in una gradita quanto inattesa improvvisazione vocale sul tema di “The man on the silver mountain”, intrattenendo e coinvolgendo la folla in un simpatico ed intenso botta e risposta. Grandissimo!
E infine, la chitarra. Su Fabrizio Fratucelli sono state dette e scritte un’infinità di cose e mi risulta, sinceramente, difficile non ripetermi nel descrivere le qualità di colui che reputo un grande artista, unico nel suo genere. A prescindere dall’aspetto tecnico, va sottolineato - secondo me - il suo grande “senso tattico” ed il suo equilibrio nel condurre la squadra. Mi scuso per quest’altra similitudine calcistica, ma con tale affermazione intendo semplicemente sottolineare che Fabrizio è un grande leader: lo si avverte guardandolo sul palco, con i suoi caratteristici ammiccamenti, la sua mimica facciale, i suoi sguardi che rivolge ora all’uno, ora all’altro componente della band, coordinandone le entrate e gli stacchi. L’intesa dev’essere sempre perfetta e la sua grande forza di coesione è proprio uno degli elementi essenziali per la buona riuscita di uno show. Un altro fattore non meno importante è dato dalla tipicità del sound che Fratucelli, dopo anni di attento studio, riesce a riprodurre con la sua Stratocaster. La scrupolosa ricerca dei suoni “giusti” ha infatti portato il nostro guitar-hero ad un livello di fedeltà assoluto, al punto che tutti, dagli addetti ai lavori ai semplici appassionati, hanno espresso tonnellate di riconoscimenti per il suo lavoro. Del resto, ciascuno dei più fedeli fans dei Deep Purple sa che tutto è cambiato da quando il Man in Black ha lasciato la band per diventare un menestrello e, pertanto, l’unica chance per gustarsi uno show “come ai vecchi tempi”, con un sound ed uno stile al 100% blackmoriano, è rappresentata da un concerto dei 60/70. E Fabrizio, onestamente, non tradisce mai le attese, nel senso che regala sempre intense emozioni agli appassionati che hanno la fortuna di vivere tale esperienza: i suoi arpeggi gustosi, i suoi passaggi vivaci, le sue scale ed i suoi accordi così spiccatamente “Blackmore oriented” ne fanno un interprete davvero speciale. Conosco Fabrizio da tanti anni ormai e so quanta “anima” ci metta nel suo lavoro: proprio per questo motivo lo seguo con un certo affetto e lo ritengo un grande.
Mentre faccio queste riflessioni, i 60/70 ringraziano tutti i fans che si avvicinano per complimentarsi con loro, ad uno ad uno.
Grazie a voi, ragazzi, per la vostra musica! Le vostre note mi terranno compagnia sulla strada del ritorno, riecheggiando familiari nella mia mente ed aiutandomi così a respingere gli attacchi del vecchio Morphy. Alla prossima!
Long live Rock and Roll...!